Grazie ad un certificato medico che sanciva la sua “necessità di isolamento” per via di un’asma cronica – con rischi ancora più gravi per via della diffusione del Covid – era stato assente al lavoro per due mesi e mezzo. E poi Almaviva, una settimana dopo il suo rientro, lo aveva licenziato. Un provvedimento che adesso il tribunale del Lavoro ha ritenuto “pienamente legittimo”, in quanto l’azienda è riuscita a dimostrare che, durante la malattia, il dipendente non avrebbe rispettato non solo l’isolamento ma neppure le più elementari norme di sicurezza, come indossare la mascherina e igienizzarsi le mani.
Il giudice Dante Marino ha dunque respinto il ricorso del dipendente, rientrante peraltro nella categoria dei lavoratori fragili, che riteneva di essere stato mandato via senza una giusta causa, e lo ha pure condannato a pagare 1.500 euro di spese di lite. Almaviva, difesa dall’avvocato Mariano Equizzi, avrebbe infatti provato “le condotte incompatibili con la condizione di fragilità” incaricando allo scopo un investigatore privato.
Gli incontri senza mascherina
Il lavoratore in virtù del certificato medico era mancato dal 31 luglio al 15 ottobre del 2020; l’azienda l’aveva licenziato il 21. Durante il processo sono stati sentiti alcuni testimoni, in particolare proprio l’investigatore che ha riferito di una serie di incontri con il dipendente Almaviva tra agosto e settembre. In due occasioni sarebbe andato a casa sua e avrebbe parlato con lui senza che nessuno indossasse la mascherina e non rispettando le distanze. In un altro caso i due si sarebbero dati appuntamento e ognuno sarebbe arrivato con la sua moto, ma poi il lavoratore sarebbe salito su quella dell’investigatore per fare un giro di una decina di minuti, a cui sarebbe seguita una passeggiata abbastanza lunga a piedi e una chiacchierata gomito a gomito su una panchina. Sempre senza mascherine.
“Il cavillo trovato su internet per restare a casa”
Proprio quel giorno, il dipendente poi licenziato avrebbe raccontato all’investigatore che soffrendo d’asma aveva scoperto che poteva rimanere a casa e non andare a lavorare “utilizzando un cavillo trovato su internet”. Successivamente i due sarebbero andati in una trattoria, dove inizialmente il gestore non avrebbe voluto farli entrare perché senza mascherine. Poi però li avrebbe fatti accomodare a un tavolo all’esterno. Durante la cena si sarebbero pure scambiati le pizze e il lavoratore non si sarebbe mai igienizzato le mani, sostenendo che “il gel gli dava fastidio”, preferendo usare i guanti, che però non avrebbe avuto.
“La proposta di lavorare in nero”
L’investigatore ha rimarcato che mai il dipendente di Almaviva gli avrebbe chiesto se avesse avuto il Covid o se avesse fatto un tampone. Quando poi gli avrebbe detto che per la sua azienda sarebbe stato comodo avere qualcuno nella sua zona, che si sarebbero potuti incassare tra i 12 ai 15 euro a perizia, il dipendente si sarebbe mostrato molto interessato, affermando che avrebbe però dovuto essere pagato in nero e non avrebbe dovuto figurare in alcun modo. L’investigatore quindi avrebbe rimarcato che l’impiego avrebbe richiesto il contatto con altre persone, ma il lavoratore avrebbe risposto che avrebbe indossato la mascherina e che non ci sarebbero stati problemi.
“Nessuna prudenza nonostante i problemi di salute, licenziamento legittimo”
Sulla scorta della relazione dell’investigatore, Almaviva aveva poi licenziato per giusta causa il dipendente. Un provvedimento ritenuto ora “pienamente legittimo” dal tribunale perché il lavoratore “in quei giorni ha adottato dei comportamenti del tutto imprudenti, irrispettosi delle regole di distanziamento sociale e di utilizzo dei dispositivi di sicurezza e quindi incompatibili con la sua ‘necessità di isolamento per condizione di fragilità per asma cronica’, così frustrando le finalità della peculiare garanzia a lui concessa”. Inoltre “detti comportamenti – si legge ancora nell’ordinanza – appaiono idonei a ledere il rapporto fiduciario fra lavoratore e datore di lavoro permettendo, dunque, di ritenere configurata una giusta causa di licenziamento”.
“La collettività ha sostenuto i costi dell’assenza”
Il giudice rimarca che in dubbio non è tanto “la qualità di lavoratore fragile, quanto la legittimità della fruizione delle guarentigie ad essa connesse per un tempo così prolungato”. Tempo durante il quale il datore di lavoro si è trovato privato della prestazione e “l’Inps (quindi latamente la collettività) ha sostenuto i costi economici, sebbene il lavoratore non abbia tenuto una condotta improntata a quelle regole di elementare prudenza idonee a ridurre il rischio di contagio e, quindi, in ultima analisi, a salvaguardare la sua salute”.
“Intaccato definitivamente il rapporto di fiducia”
Infine, il tribunale ritiene che il dipendente “ha agito con piena coscienza e volontà” e “la condotta talmente grave da non poter giustificare la prosecuzione, anche solo temporanea del rapporto, avendo intaccato in via definitiva il rapporto fiduciario con la parte datoriale”. Da qui il rigetto del ricorso del lavoratore e la sua condanna a pagare 1.500 euro di spese di lite.