Il giudice del Lavoro ha ritenuto legittimo l’allontanamento di un dipendente che avrebbe abusato dei congedi previsti dalla legge 104. L’azienda aveva fatto seguire il lavoratore da un investigatore privato. Lui aveva presentato ricorso, ma il tribunale l’ha rigettato e ha condannato l’uomo a pagare le spese di lite.
Durante le ore di permesso previste dalla legge 104/1992 avrebbe dovuto accudire il cognato disabile e malato di tumore, ma sarebbe invece andato a fare la spesa e a comprare gelati. A scoprire che il dipendente di Almaviva avrebbe abusato delle ore di congedo è stato un investigatore privato incaricato dalla stessa azienda che lo ha tenuto d’occhio e pedinato. Il lavoratore era stato quindi licenziato, ma il giudice del tribunale del Lavoro, Dante Martino, al quale aveva fatto ricorso ritenendo ingiustificato e ingiusto il motivo dell’allontanamento, ha stabilito invece che “il licenziamento è fondato su una giusta causa e proporzionato alle condotte addebitate al lavoratore”, come sostenuto dalla difesa di Almaviva, rappresentata dall’avvocato Mariano Equizzi. Il dipendente è stato quindi condannato a pagare 1.500 euro di spese di lite.
“In giro a fare la spesa e a comprare gelati”
Dalle investigazioni private, sarebbe emerso che il 20 febbraio dell’anno scorso, alle 8.30, il lavoratore – formalmente in permesso per la legge 104 – sarebbe uscito da casa per andare in un’officina meccanica di via Paruta, consegnando delle componenti metalliche da saldare. Poi sarebbe tornato a casa con in mano “una sorta di tubo bianco”. Il 24 febbraio successivo, alle 18.30, orario in cui avrebbe dovuto assistere il parente malato, sarebbe andato invece al Lidl di via La Malfa e, dopo aver effettuato degli acquisti, alle 19.35 sarebbe tornato a casa. Il 28 febbraio, il dipendente avrebbe poi revocato il permesso per assistere il cognato già concesso dall’azienda e comunicato di essere malato: in questo caso alle 16.16 sarebbe uscito da casa e “con passo frettoloso e senza mostrare alcuna sofferenza fisica” sarebbe andato al Carrefour in via Domenico Russo dove avrebbe acquistato “una confezione di gelato” e poi in una nota gelateria dove avrebbe comprato altri gelati, prima di tornare a casa alle 16.50.
La difesa: “Ho fatto tutto nell’interesse di mio cognato malato”
Come rimarca il giudice nella sentenza emessa nei mesi scorsi “i fatti esposti hanno trovato una sostanziale conferma in giudizio” tanto che “è lo stesso lavoratore, in sede di controdeduzioni difensive ad affermare che ‘ogni attività da me intrapresa nei giorni cui fate riferimento è stata da me svolta per aiutare il disabile nelle sue piccole incombenze. Il 20 febbraio sono andato da un fabbro per far saldare vecchie attrezzature da palestra che mio cognato mi aveva commissionato per riprendere il tono muscolare perso a causa della malattia. Il 24 ho fatto la spesa dietro richiesta di mio cognato, non avrei avuto il tempo necessario qualora fossi uscito alle 21. Poi, visto l’orario e il traffico, sono tornato a casa per cenare e, successivamente, recapitargliela”. Per quanto riguarda il giorno di malattia: “Mi sono allontanato qualche minuto da casa benché influenzato perché tutti i componenti del mio nucleo famigliare erano parimenti indisposti e avevo la necessità di fare qualche acquisto per beni di prima necessità”. Argomentazioni che non hanno convinto il tribunale.
La testimonianza del disabile e i dubbi del giudice
Durante il processo è stato sentito proprio il disabile che il lavoratore avrebbe dovuto assistere: “Mio cognato – ha spiegato – una/due volte a settimana faceva la spesa per me e mia madre, portandomela in genere lo stesso giorno”. Sottolinea il giudice: “Appare quindi del tutto anomalo che ciò non sia accaduto il 24 febbraio, pur avendo avuto il ricorrente (recatosi al supermercato alle 18.30 e in permesso dalle 19 alle 21) tutto il tempo di recarsi a casa del cognato. Tale elemento indiziario, specie se associato all’assenza di qualsiasi prova in ordine all’effettiva consegna della spesa all’assistito nei giorni successivi, avvalora la tesi di Almaviva, secondo cui queste attività avrebbero avuto più una finalità personale che assistenziale”.
Allo stesso modo, dalle dichiarazioni del teste circa l’attrezzatura da palestra per il giudice “non sussistono elementi che provano quando e se il suddetto supporto metallico sia mai stato recapitato al disabile, sicché non v’è modo di ritenere che il ritiro del tubo metallico da parte del lavoratore nella suddetta data fosse effettivamente strumentale all’assistenza al soggetto invalido”. Ma “anche se tale prova fosse stata fornita, rimarrebbe comunque il fatto che il ricorrente, il 20 febbraio, ha speso appena 40 minuti (essendo rientrato a casa alle 9.40) delle sue tre ore di permesso (9-12) per un’attività latamente riconducibile all’assistenza del cognato disabile”.
“Il lavoratore ha abusato dei permessi”
Ecco perché “le condotte sopra descritte configurano un evidente abuso dei permessi previsti dalla legge 104” e “appare chiaro come la fruizione del permesso da parte del lavoratore ed il correlativo sacrificio da parte del datore di lavoro che rinuncia a parte della prestazione lavorativa e della collettività che tramite l’Inps ne copre i costi, possa ritenersi legittima solo se finalizzata a perseguire detto fine. Nel caso di specie tale finalità risulta essere stata ripetutamente disattesa dal ricorrente che, uscito dal luogo di lavoro per fruire dei suddetti permessi, anziché recarsi a casa del cognato disabile (pur avendo potuto), ha svolto attività solo minimamente riconducibili alle sue esigenze assistenziali”.
“Lesa gravemente la fiducia del datore di lavoro”
Sul giorno di malattia, il giudice scrive che “sebbene il lavoratore sia uscito fuori dalle fasce orarie utili per la visita fiscale, le commissioni svolte non possono certo ritenersi di primaria importanza: l’acquisto di gelato, prima al supermercato e poi in gelateria, non sono certo ascrivibili a beni di prima necessità che giustificherebbero l’allontanamento dalla residenza. Tale circostanza, certamente da sola inidonea a provare la natura simulata della malattia, mette comunque in dubbio la buona fede e correttezza della condotta del lavoratore e, unitamente ai fatti sopra descritti, costituisce una grave lesione del rapporto fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro”.